PENSARE IL GREGORIANO
di Fulvio Rampi
La lettera apostolica Novo millennio ineunte di Giovanni Paolo II auspica, quale frutto dellanno giubilare, una nuova riflessione sui documenti del Concilio Vaticano II. Chi si occupa di musica per la liturgia non può non cogliere la puntualità di una simile sollecitazione anche in ordine a questo ambito della vita ecclesiale. Non che gli anni post-conciliari abbiano registrato scarsa attenzione in proposito: è tuttavia mancato quellequilibrio, indispensabile in ogni transizione, capace di orientare le nuove istanze liturgico-musicali alla luce di una Tradizione troppo spesso vista più come vincolo mortificante che come fondamento ineludibile di ogni nuova solida proposta. Frettolose e fuorvianti interpretazioni del dettato conciliare hanno contribuito a creare in modo dissennato una netta frattura col passato. Con tali premesse, non sorprende che una simile sciagurata superficialità abbia di fatto generato vere e proprie mistificazioni, in taluni casi addirittura paradossali, tranquillamente accolte e sostenute nella prassi liturgico-musicale postconciliare.
Il prezzo più alto di un conseguente clima di devastanti e rigide contrapposizioni è stato pagato dal canto gregoriano, da sempre dichiarato dalla Chiesa come canto proprio della liturgia romana e come tale riconosciuto anche dallultimo Concilio. Fra i non molti articoli che la Costituzione Sacrosanctum Concilium dedica alla musica liturgica, si legge testualmente: La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana: perciò, nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale (n.106). Ebbene, la risposta non si è fatta attendere: si è ritenuto assolutamente normale e perfettamente conciliare far sparire il gregoriano dalla liturgia. Non solo: nel sentire comune, il canto gregoriano è associato a quanto di più anticonciliare si possa pensare. Lo si è condannato senza appello in nome di una participatio actuosa tanto sbandierata quanto mistificata. Le nuove esigenze liturgiche hanno azzerato, in un sol colpo, mille anni di storia. Ma mentre in ambito ecclesiale si stava consumando il sostanziale rifiuto, il mondo musicologico e musicale stava facendo vivere al canto gregoriano uno straordinario momento di riscoperta. La ricerca sulle antiche fonti manoscritte - ricerca iniziata già nella prima fase solesmense della restaurazione gregoriana e culminata nel Motu proprio di Pio X e nelle successive edizioni liturgiche ufficiali- è proseguita in direzione diversa ed ha aperto la difficile strada di una comprensione più profonda della matrice espressiva del canto gregoriano. Si è trattato di unautentica operazione di ablatio che, anche attraverso nuove proposte interpretative, ha contribuito a svelare un tesoro inestimabile. Gli antichi codici liturgico-musicali del repertorio gregoriano si sono rivelati una fonte di inesauribile ricchezza.
Ma qual è questa ricchezza? Che cosa è ri-emerso di così decisivo, di così sostanziale ? La risposta è sconfinata e semplice insieme: quegli antichi segni hanno ridato vita ad una linea melodica ritrovata alcuni decenni prima. Più precisamente: quella linea melodica è divenuta valore, ossia veicolo sonoro della proclamazione ordinata di un testo. Ciò configura una situazione nuova e di importanza assoluta: il testo viene presentato, attraverso un evento sonoro, precisamente spiegato e non semplicemente detto, pronunciato. Il canto gregoriano, pertanto, rimanendo fatto musicale, assume vero e proprio spessore e valore esegetico. E lesegesi della Chiesa, ed è questo il tesoro, è questa la perla preziosa, ciò che non possiamo permetterci di ridurre a semplice dato squisitamente musicale. Quella melodia, prodigiosamente ritrovata ma ancora incompleta di significato, è divenuta ciò che realmente è: la risposta della Chiesa alla Parola, dunque ciò che siamo chiamati ad assumere e a seguire, non a giudicare. Mentre gli illuminati interpreti del Concilio ne decretavano la fine, il canto gregoriano svelava, ma non a casa propria, la sua sfavillante bellezza ritrovata.
Il fascino del gregoriano ha coinvolto, anche se in modo non sempre ordinato, il mondo accademico, culturale, musicale, ma non i Seminari, non la Sacra Liturgia. Dopo averne rivendicato ufficialmente la proprietà, la Chiesa ha di fatto emarginato ciò che forse ha ritenuto troppo ingombrante o esperienza definitivamente conclusa.
E utile tentare una riflessione, un pensiero sul canto gregoriano,
nella speranza che la rinnovata consapevolezza dei suoi più autentici
connotati espressivi contribuisca almeno a correggere alcuni giudizi sommari
sulla sua praticabilità pastorale.
Larticolo conciliare appena ricordato invita a riservargli il posto
principale: ebbene, è il posto che si riserva normalmente ad un
ospite, certamente importante, ma per definizione non a casa sua? Lo si vuol
far sedere in prima fila, magari additandolo ad inarrivabile e al tempo stesso
superato esempio di canto sacro, o gli si vuol conferire una dignità
di diverso tipo? Come possiamo rispondere, oggi, se non ci chiediamo, finalmente,
cosè il canto gregoriano, o, più precisamente, come è
maturata la sua comprensione lungo un secolo e mezzo di ininterrotto cammino
di ricerca? Se ad un approccio diffidente venisse sostituita una totale immersione
in ciò che la Chiesa, profeticamente, riconosce essere privilegiato testimone
della sua fede, non rimarremmo delusi. Gli antichi codici notati, immagine del
Grande Codice della Parola, sono esigenti e di velata ma sconfinata
bellezza: essi ci invitano a pensare il gregoriano, ossia richiamarlo
alla memoria per coglierne i rimandi, i riflessi, le allusioni. Parlare oggi
di canto gregoriano in ambito ecclesiale e non solo in qualche corso per specialisti,
è segno da cogliere e speranza da nutrire. Non va dispersa anche solo
la semplice curiosità, seppure spesso venata di diffidenza e colma di
preconcetti. La storia della prodigiosa riscoperta di questo patrimonio, dai
primi passi dei monaci di Solesmes ai giorni nostri, è segnata da sentimenti
forti, da dispute accese, da vere e proprie liti che, se da un lato manifestano
il limite e la contraddizione umana, daltro lato evidenziano un fatto
fondamentale: davanti al gregoriano non è ammessa lindifferenza.
Il canto gregoriano è innanzitutto vicinanza alla Parola, una vicinanza eccessiva: tutto è reso semplice perché essenziale e tutto è sovrabbondante perché di una ricchezza senza fine. La Parola è portata, attraverso artifici espressivi che attingono a piene mani allarte retorica, ad una altissima temperatura ed è essa stessa la misura del tempo, nel senso di ritmo ordinato. La pronuncia del testo è la vera misura del tempo: è il cosiddetto valore sillabico, sul quale si fonda tout court il ritmo gregoriano. La sillaba, cellula del testo, è cellula del ritmo: il suo valore, tuttavia, non è predeterminato da una semplice e pur assolutamente pregiudiziale corretta pronuncia, ma gli viene conferito dalloperazione retorica che viene condotta su di essa. Il canto gregoriano non agisce dal di fuori semplicemente musicando un testo, ma realizza la sublime operazione dal di dentro. La Parola, qui, è presupposto e fine: presupposto nel senso di lectio, ossia di materialità fonetica, di valore sillabico connesso ad una normale e corretta pronuncia lontana da ogni isocronismo; fine nel senso di contemplatio, che attraverso una ruminatio ed una oratio giunge finalmente a spiegare quel testo secondo un significato che, pur partendo da una materialità, la trascende e la trasfigura ad evento sonoro in ordine alla sua funzione liturgica.
Pensare il gregoriano è abituarsi a pensare
come e con la Chiesa nel solco della sua Tradizione. Esso ci insegna
cosa dire nella Liturgia e, soprattutto, come dirlo: è
risposta intonata, elevata, meditata della Parola. E lesatto contrario
dellimprovvisazione. E auspicabile che il ritorno allo studio dei
documenti conciliari riesca a mutare una esiziale frenesia di modernità
in una rinnovata e da più parti invocata urgenza di radicalità.
Al di là di ogni preconcetto, il canto gregoriano potrà tornare
ad essere espressione viva della Chiesa solo quando, ad ogni livello, ci si
accorgerà del cammino percorso e ci si renderà conto di ciò
che è stato ritrovato nella seconda fase della restaurazione gregoriana
condotta segnatamente nei decenni post-conciliari.
Per meglio comprendere la situazione attuale è forse utile fermare ulteriormente
la nostra attenzione sul decisivo frangente storico che ha visto compiersi unimpresa
gigantesca che, come detto, va sotto il nome di Restaurazione gregoriana.
La letteratura, su questo tema, è vasta e non è ora il caso di
ripercorrere in modo analitico le pur interessanti fasi e vicende di quel periodo.
Resta comunque una grande domanda alla quale, oggi più che mai, non possiamo
sottrarci: che senso ha avuto, in ambito ecclesiale, lenorme lavoro dei
benedettini solesmensi
nel XIX secolo? La domanda, si badi, non è tanto sullesito, quantomai
evidente, ma appunto sul senso, sul significato. Senso del quale, ma questo
poco importa, sfuggiva probabilmente lintera portata persino ai protagonisti
di tale avventura. La restaurazione gregoriana, ed iniziamo così a rispondere
ad un quesito tanto grande, ha tolto il canto gregoriano da una situazione inaccettabile,
da uno stato di degrado talmente profondo da pregiudicarne pesantemente il messaggio.
Ma cosa hanno fatto, concretamente, i benedettini solesmensi in quegli anni?
Il grande dom Gueranger, primo abate di Solesmes,
rifondò labbazia francese con lintento di cercare dovunque
ciò che si pensava, ciò che si faceva, ciò che si amava
nella Chiesa nelle età della fede. La volontà di recuperare
in radice ciò che si era perduto coinvolse la liturgia, centro della
vita monastica, e si concretizzò sul canto gregoriano, da sempre simbolo
di ununità liturgica a quel tempo compromessa. I nomi da ricordare
sarebbero molti: valgano per tutti le due enormi figure di dom Pothier e di
dom Mocquereau. Essi hanno compiuto, in alcuni decenni, i primi fondamentali
passi per ridare credibilità al gregoriano: esso ha potuto tornare a
parlare perché gli è stata innanzitutto restituita
una veste melodica originale, sfigurata nel corso dei secoli come testimonia
la celebre Editio Medicea (1610), prototipo delle edizioni ufficiali
di canto gregoriano fino allinizio del XX secolo.
Ciò si è reso possibile attraverso un colossale lavoro di reperimento, di studio, di trascrizione, di comparazione di innumerevoli fonti manoscritte sparse in tutta Europa. La rinascita del canto gregoriano non poteva che iniziare dalle fonti, da quei codici che, a partire dal X secolo danno testimonianza, pur nelle diverse aree geografiche e con diverse scuole di notazione, di un repertorio comune e consolidato. Nel 1883 Pothier pubblica un nuovo Graduale (i canti della Messa), vera pietra miliare della ricostruzione delle originali melodie gregoriane, mentre Mocquereau, nel 1889, inaugura la monumentale pubblicazione della Paléographie Musicale, unopera tuttora in corso che conta 22 volumi e che unisce allo studio musicologico delle antiche notazioni e dei fondamenti della composizione gregoriana, la riproduzione fotografica di alcune fra le fonti manoscritte più significative. Pio X, nel suo Motu proprio del 1903 ha sì riaffermato la priorità assoluta del canto gregoriano nella liturgia romana, ma va detto che gli stessi pronunciamenti hanno avuto efficacia grazie al gigantesco lavoro di oltre mezzo secolo. Così infatti recita il Motu proprio al punto 3: Queste qualità (musica come arte vera, santa, universale) si riscontrano in grado sommo nel canto gregoriano, che è per conseguenza il canto proprio della Chiesa Romana, il solo canto che essa ha ereditato dagli antichi padri, che ha custodito gelosamente durante i secoli ne suoi codici liturgici, che come suo direttamente propone ai fedeli, che in alcune parti della liturgia esclusivamente prescrive e che gli studi più recenti hanno sì felicemente restituito alla sua integrità e purezza.
La Chiesa, con questo documento, si può dire abbia ufficializzato
lo sforzo solesmense, senza il quale le medesime affermazioni non avrebbero
avuto la stessa forza. Limmagine annerita di edizioni che, come detto,
ripresentavano in buona sostanza lestrema decadenza dell Editio
Medicea, non avrebbero mai potuto costituire un solido punto di partenza
per una riqualificazione del canto gregoriano in ambito liturgico.
Il Motu proprio fu la conclusione di un primo percorso di restaurazione,
ma fu soprattutto linizio di una nuova primavera gregoriana. Anche qui
la letteratura è assai vasta perché, comè noto, la
spinta del documento papale alla realizzazione di nuove edizioni ufficiali di
canto gregoriano generò una sorta di frenesia negli ambienti liturgico-musicali.
Fu ufficialmente nominata unapposita Commissione Pontificia con a capo
dom Pothier: gli aneddoti in proposito si sprecano, le contrapposizioni interne
ed esterne alla commissione finirono per compromettere la presenza e il contributo
di dom Mocquereau. Prevalse la linea imposta da Pothier e Mocquereau si dimise
in segno di protesta. Gli studi, oggi lo possiamo dire, hanno dato ragione a
Mocquereau, ma comunque si arrivò, in pochi anni, alla pubblicazione
del nuovo Graduale Romanum (1908) per il repertorio della Messa e al
nuovo Antiphonale Romanum (1912) per il repertorio dellUfficio
Divino.
La risposta era stata data: la Chiesa aveva posto nuovamente il
suo canto gregoriano al centro della sua liturgia. Ciò
che conta sottolineare è però il fatto che questo centro vitale
è divenuto tale in virtù e sulla spinta di unopera di restaurazione
radicale accolta e ben compresa dalla Chiesa stessa. La comparazione di centinaia
di manoscritti sparsi in tutta lEuropa cristiana, aveva riconsegnato alla
Chiesa un patrimonio leggibile, nella fattispecie una versione melodica
tendente alloriginale: ciò si è rivelato ampiamente
sufficiente a rimotivare la centralità del canto gregoriano.
Ma lopera di restaurazione, a questo punto, non poteva certamente dirsi
conclusa. Dopo il problema, per la maggior parte risolto, della linea melodica,
emergeva in tutta la sua urgenza il problema del ritmo, del valore delle note,
dunque del valore del testo.
La vera questione centrale di tutto il XX secolo è riassumibile
nel ritmo gregoriano. Ritmo nellaccezione globale di ordo motus,
ossia di ordine del movimento del testo, del suo modo di comunicarsi secondo
un preciso significato. Le edizioni di inizio secolo, risolvendo sostanzialmente
ed in modo brillante il problema melodico, avevano, per così dire, automaticamente
messo il dito nella piaga, evidenziando lenorme lacuna sul versante ritmico.
E il problema che si pone ancora oggi a chiunque voglia cantare un brano
gregoriano appartenente al fondo autentico, primitivo: quale valore assegnare
alla notazione quadrata? Quale il sistema ritmico di riferimento? Il valore
sillabico, a queste condizioni, anche se correttamente applicato in ordine alla
pronuncia di un testo, soddisfa un presupposto ritmico senza raggiungere il
suo fine. Le domande, non è il caso di insistere, si affollano perché,
in effetti, la notazione vaticana è una bella melodia senza ritmo, dunque,
per dirla in modo chiaro, un canto gregoriano senza senso.
Le teorie ritmiche, e anche qui non occorre scendere nel dettaglio, si sono
moltiplicate lungo tutto il corso del XX secolo con risultati, francamente,
il più delle volte persino fuorvianti. Ne è triste esempio il
cosiddetto metodo solesmense (per la verità mai applicato
dagli stessi monaci di Solesmes nelle loro celebri interpretazioni) che ingabbiava
letteralmente la melodia gregoriana in improbabili successioni ritmiche binarie
e ternarie. Per gran parte del secolo, gli unici ( e, ahimé, sciagurati)
riferimenti ritmici delle melodie gregoriane sono stati proprio i segni solesmensi
aggiunti alla notazione vaticana: puntini (mora vocis) , trattini orizzontali
(episemi) e verticali (ictus), legature e quantaltro hanno
tentato invano di far parlare una notazione nata per non dir altro se non la
melodia.
Ecco, se il cammino della restaurazione gregoriana si fosse arrestato a questo punto, vi sarebbero stati motivi sufficienti per ritenere questo repertorio ormai inadeguato ad occupare un posto centrale nella liturgia della Chiesa. Non sembri ora eccessiva una simile affermazione; in realtà, ciò che bastava a conferire non solo dignità, ma centralità al gregoriano allinizio del XX secolo, non può essere ritenuto oggi sufficiente a rimotivarne la stessa autorità. Questo perché la natura del canto liturgico, esso stesso atto di culto, non è riducibile ad una melodia, anche se ricostruita in versione vicina alloriginale. Una melodia, anche se venerabile, non esprime a sufficienza anche un significato: il senso di quelle movenze melodiche emerge in modo compiuto solo quando ne viene chiarito il ritmo. Le fragili teorie ritmiche alle quali si è fatto riferimento hanno rivelato chiaramente che si stava percorrendo una strada chiusa. Il canto gregoriano valutato secondo il suo pur straordinario apparato melodico e musicale in senso lato, potrebbe al massimo costituire un enorme serbatoio di multiforme materiale musicale, un po come è successo, mutatis mutandis, al passaggio dalla monodia alle prime forme polifoniche in epoca tardo-medievale. La sensazione è che in ambito eccesiale, anche fra gli addetti ai lavori, questa sia precisamente la convinzione dominante. Anche la difesa, oggi, del gregoriano come canto per la liturgia, è debole e poco credibile, per non dire superata, perché poggia troppo spesso su argomentazioni quasi esclusivamente musicali. Non ci si è accorti che, invece, la restaurazione è proseguita a passi giganteschi in altra direzione e che una vera rivoluzione si stava compiendo in merito alla comprensione del canto gregoriano. Lo studio delle antiche scritture neumatiche ha colto con sempre più matura consapevolezza il senso di quei primi segni (neumi) tracciati da amanuensi preoccupati di trasferire sulla pergamena non tanto un dato musicale quanto piuttosto il modo sonoro di proclamare quel preciso testo con quel preciso significato in quel preciso contesto liturgico.
Oggi, la motivazione della ritrovata centralità del gregoriano nella liturgia sta proprio in questo spostamento di prospettiva, esattamente nella sua mutata comprensione da fenomeno musicale a fenomeno esegetico. Allora possiamo ben dire, tentando di completare la risposta al difficile quesito iniziale, che il progressivo cammino di restaurazione gregoriana ha finalmente trovato il suo senso: ristabilire il rapporto intimo e vitale fra il testo ed il suo significato comunicato in forma sonora.
Ma questa cosè se non la primaria esigenza a cui
deve rispondere il canto liturgico? Ecco, nel canto gregoriano si è prodigiosamente
ritrovato proprio questo. E ritrovato, possiamo dire, alla massima potenza,
perché il significato comunicato dal testo è quello che la Chiesa
ha fatto proprio da secoli. Esattamente di questo non ci si è
accorti. Ed è esattamente questo che oggi la Chiesa sta rifiutando nella
prassi liturgica.
Curioso destino, quello del canto gregoriano. Se, per un attimo, tentiamo uno
sguardo dallalto per guardare alla Storia, ci si presenta un repertorio
(chiamiamolo così) che rinasce proprio nei momenti di maggiore debolezza.
La storia della sua restaurazione ad opera dei monaci solesmensi fino alle edizioni
ufficiali della Vaticana di inizio 900 è monito per loggi:
è urgente che la Chiesa, ad ogni livello, sappia con certezza che nulla
è più come mezzo secolo fa, che la seconda e decisiva fase della
restaurazione può dirsi, se non certamente compiuta, almeno iniziata
in una prospettiva che guarda allessenza di un fenomeno espressivo. Questo
nella Chiesa non si sa, perché se si sapesse come stanno realmente le
cose, il canto gregoriano non potrebbe mai e poi mai essere emarginato nella
prassi liturgica.
Nulla più del canto gregoriano promuove unautentica partecipazione attiva al culto divino. Certo, una partecipazione non banalizzata e ridotta alla caricatura di un attivismo liturgico, ma segno di un radicale essere in sintonia.
Mi pare di poter dire che, vista la sua storia, il canto gregoriano
soffre ma non teme le nostre inadeguatezze e attende con pazienza un gesto di
amore dagli attuali figli di una Chiesa che lha pensato da sempre come
testimone ottimale della sua fede.
[marzo 2004]