ORGANISTA: UN MESTIERE IMPOSSIBILE?

di Luca Purchiaroni




* E’ ancora possibile oggi svolgere l’antico mestiere dell’organista liturgico?
* Quali sono le prospettive per un organista neodiplomato?
* La musica leggera in chiesa: un segno di rinnovamento o di involuzione?


Siamo ormai così lontani dai tempi in cui in Italia si poteva ancora parlare degli organisti come dei veri e propri professionisti, stipendiati dalle chiese, che dobbiamo usare il termine ‘antico’ per definire quello che, al di fuori dei nostri confini, rimane un mestiere attualissimo e degno del massimo rispetto.


Come, e dove è finito l’organista dopo tutti questi anni?


In qualche chiesa del nostro Bel Paese, con un po’ di fortuna, possiamo ancora trovare le labili tracce della sua insidiata esistenza. Ma si tratta di casi sporadici, isolati, dovuti alla volontà di qualche parroco particolarmente sensibile e caritatevole o alle disperate condizioni economiche di organisti senza valide alternative.


La Chiesa, in realtà, non riconosce quella dell’organista come una vera professione.
E’ professione quella dell’architetto che costruisce il tempio; o quella dell’elettricista che lo fornisce di un impianto elettrico; o quella di una squadra di pulizie, e via dicendo. Quella dell’organista no, non è una professione intesa come “attività degna di essere retribuita”.


Io trovo assurdo, ad esempio, che una chiesa dotata di un organo paghi l’organaro per la manutenzione e non paghi l’organista per un suo corretto utilizzo!
La Chiesa, parrochiale o non parrocchiale che sia, pur di non pagare per un servizio che arricchirebbe la liturgia, è capace di ricorrere a dei veri e propri incompetenti in campo musicale. Dilettanti che hanno finito per annichilire i gusti dei fedeli tanto da fargli accettare qualsiasi canzonetta eseguita su qualsiasi strumento.


E allora l’organista, quello vero, è costretto a ripiegare su altro. Vediamo cosa:
a) lezioni private di qualsiasi materia musicale (dati i suoi trascorsi multidisciplinari, di molto superiori a quelli di qualsiasi altro strumentista); ma data la gran quantità di musicisti disoccupati diventa sempre più arduo trovare allievi.
b) cercare di entrare nel difficile circuito dei matrimoni, notoriamente gestito da pochi organisti (che il più delle volte neanche lo sono) che lavorano molto.
c) raccomandarsi a qualche associazione per elemosinare concerti, quasi sempre a titolo gratuito, a perenne scopo promozionale.
d) riversare il proprio talento nella musica leggera (sicuramente più redditizia) facendo il tastierista in qualche gruppo, o facendo pianobar, a scapito naturalmente della manualità e della salute.

Questi sono in linea di massima i quattro principali, possibili sbocchi ‘lavorativi’ (tra virgolette) per un organista neodiplomato; durante tutto questo, poi, si cerca di continuare a studiare per ammucchiare altri diplomi, nella vana attesa che si crei qualche posto di lavoro nelle scuole.
Ma anche se uno riuscisse ad avere successo in tutti questi piccoli mestieri che non offrono nessun tipo di garanzia sul futuro, quanto potrebbe durare?


Per tutti questi motivi, molti gettano la spugna poco tempo dopo aver coronato i loro studi, magari anche con un bel voto illusorio; altri (forse più intelligenti, o più coraggiosi) optano per cercare fortuna all’estero e, nella maggior parte dei casi, finiscono per trovarla.
Esistono delle riviste musicali tedesche, inglesi e americane, dove compaiono sistematicamente sfilze di annunci di chiese, cattoliche o protestanti, che offrono cifre allettanti in cambio dei servizi resi da un organista provetto. In molti casi viene offerto anche l’alloggio. Si può aprire ad esempio la rivista The American Organist, e scorrere le richieste per organisti part-time e full-time. I salari vanno da 7,000-8,000 $ annui per suonare solo di domenica e dirigere il coro, fino a 38,500 $ per un impegno più grosso in una chiesa cattolica e 40,000 $ in una protestante. E i salari sono indicati sempre come ‘negoziabili’!


Di possibilità ce ne sono molte, indubbiamente, e non si può neanche dire che ce ne siano più che qui in Italia. Esistono e basta, mentre qui non esistono.
Ma dobbiamo proprio emigrare per essere riconosciuti professionisti? Non possiamo crearla qui, l’America, invece di andarcela a cercare fuori?


Un organista (perdonatemi il gioco di parole), ha studiato la Fuga come ‘forma di composizione dalle molteplici soluzioni’ o come ‘unica soluzione per scampare ad una forma di decomposizione’?
Dobbiamo cercare i nostri paradisi altrove, come proponeva Gabriele Salvadores nei suoi primi film, o restare per cercare di cambiare qualcosa, come nel suo ‘Sud’, sempre per fare riferimento al nostro regista?


Certo è che di coraggio ce ne vuole, qualsiasi delle due decisioni si voglia prendere. Ma forse bisognerebbe vedere quale tra le due cose sentiamo come la più giusta, sia per noi che per la categoria che rappresentiamo. Anche perché i nostri conservatori continuano a sfornare questi inutili prodotti, a partorire questi esserini dalle zampette fragili che non riescono a sostenerli. E, diciamolo pure, non fanno niente per aiutarli, per guidarli verso strade sicure, per dargli una prima chance in modo che possano in seguito sorregersi da soli, con le loro forze, la loro bravura, quando questa ci sia.


Perché, ad esempio, i Conservatori non segnalano i migliori diplomi alle società concertistiche, e queste non creano un collegamento diretto con i Conservatori? E’ così evidente che a guadagnarci sarebbero tutti: i Conservatori per il prestigio, le società per le sovvenzioni, ed il musicista per il successo personale. Eppure non si fa. Così possono andare avanti soltanto quelli fortunati, a prescindere dalla loro bravura. E ‘fortuna’ vuol dire avere le conoscenze giuste al posto giusto, soprattutto nel campo politico.


E’ risaputo, tra noi musicisti, il fatto che ci siano molte associazioni concertistiche che offrono la possibilità di esibirsi in pubblico, ma pare che tutte siano sempre sull’orlo del fallimento, e non possano pagare un centesimo. Ciò è particolarmente grave ed offensivo, però, quando si sa che dette associazioni godono di lauti sovvenzionamenti da parte di enti statali o compagnie private, che il più delle volte vengono abbondantemente arrotondati dal contributo del pubblico pagante.
Il musicista, si sa, ha bisogno di suonare per farsi conoscere, per impreziosire il suo curriculum. Ed è questo il punto dolente su cui fanno leva queste malfamate organizzazioni.


Oggi si parla diffusamente di sfruttamento del lavoro minorile nel mondo, o di quello della manodopera nel mezzogiorno, ma non si è mai parlato di tutti questi loschi traffici di danaro che con la scusa della cultura vanno a rimpinguare le tasche di chi specula sul nostro lavoro, sul lavoro del musicista.


Mi piacerebbe conoscere il punto di vista che hanno, su questi temi, associazioni come l’AGIMUS, o come i Concerti del Tempietto, o l’Associazione Organistica del Lazio, tanto per citarne qualcuna che ho avuto modo di conoscere.

Tornando all’incriminato rapporto Chiesa-organista, punto dal quale siamo partiti per la nostra indagine, bisogna puntualizzare anche qui degli aspetti quantomeno oscuri relativi a questa problematica. Il che vuol dire che forse è il caso di fare delle vere e proprie denunce.
Da dove viene questo malcostume di non voler assumere gli organisti?Da una tradizione?
Certamente no, visto che fino al secolo scorso tutti i musicisti che prestavano servizio in una chiesa (sia organisti che cantori) rientravano nei libri paga della stessa.


Sappiamo che a Venezia, per esempio, la prima assunzione di un organista risale al XIV secolo, e più precisamente al 1336, quando in San Marco si insediò un certo Mastro Francesco da Pesaro. Da allora in poi si sono avvicendati sempre degli ottimi musicisti, i quali per essere assunti dovevano superare dei severissimi esami d’ammissione. Esistevano quindi dei veri e propri concorsi, dove bisognava dimostrare tutta l’arte di cui si era capaci (una delle prove consisteva, per esempio, nell’armonizzare all’impronta un cantus firmus assegnato dalla commissione sí come quattro cantori cantassero, e quindi muovendo le singole voci melodicamente, stando attenti a non superare gli ambiti dell’estensione vocale).


Da quell’epoca in poi, si sa, sono fiorite molte cappelle musicali, grandi e piccole, che con grande munificenza gareggiavano nell’accaparrarsi i migliori musicisti della piazza, così come per i pittori, scultori, architetti. Roma ne ha avuti tra i migliori sicuramente, e se solo pensiamo a Palestrina e a Frescobaldi possiamo immaginarci il livello musicale che aveva raggiunto, soprattutto nel Rinascimento e nel Barocco. L’arte significava prestigio, e l’artista era tenuto in grande considerazione.


Questa lunga e meravigliosa tradizione continuò fino a quel periodo di decadenza che ebbe inizio con l’avvento dell’Opera, e cioè grosso modo sul finire del XVIII secolo. Questo dilagante, maniacale gusto per la melodia accompagnata, riuscì ad infiltrarsi anche nelle chiese, dove addirittura nel momento dell’Elevazione l’organista poteva suonare indistrurbato delle agili marcette a suon di tromboni o fagotti (vedi Giovanni Morandi, o Padre Davide da Bergamo).
A tutto questo si sentì il bisogno di porre un freno, e ci pensò il Movimento Ceciliano nel tardo ‘800, con la sua azione purificatrice di sapore controriformistico. Soltanto che questa ‘rivoluzione’ non propose un nuovo stile da seguire, e da quel momento fu soprattutto la Francia a guidare gli organisti e i compositori, nonché gli organari. I Ceciliani non avevano inventato nulla di innovativo, si limitavano a reclamare un ritorno all’antico: al canto gregoriano, a Palestrina, proprio come si proponeva la Camerata dei Bardi nel ‘600 col loro recupero della classicità greca a spese della polifonia resa ormai inintelligibile dal contrappunto. La differenza è che quest’ultima aveva aperto una nuova strada ai giovani compositori, mentre i Ceciliani hanno creato soltanto una voragine in cui è sprofondata tutta la creatività italiana.


Anche lo strumento ‘organo’ durante questa riforma ceciliana ha subito delle manomissioni che lo hanno trasformato nella sua essenza. Il mitico organo italiano è stato snaturato, spersonalizzato per farlo diventare una macchina sinfonica. Ma è l’epoca del Romanticismo: i tempi e i gusti sono cambiati.


Quello che rimane incomprensibile però, è che la Chiesa a un certo punto abbia voluto interrompere quella lunghissima tradizione musicale che la onorava. Sappiamo tutti che esiste ancora il coro della Cappella Sistina, e quello della Cappella Giulia, ma fuori dalle mura vaticane non vediamo altri esempi del genere, nel senso di vere e proprie istituzioni che assumono musicisti con regolari contratti. Erano fiorentissime, per esempio, molte altre cappelle, come quella di S. Lorenzo in Damaso, o quella di S. Maria in Trastevere… dove sono andate a finire? E gli organisti? Sappiamo che il Vaticano ne fa uso, come molte delle chiese e basiliche più importanti di Roma. Ma... a quali condizioni? E’ ora di mettere in chiaro le cose, di armarsi di coraggio e prendere le redini della situazione, secondo me, prima che sparisca per sempre il nostro amato mestiere.


Vorrei ascoltare anche le ragioni addotte dalla prestigiosa Accademia di S. Cecilia, sul fatto che per assumere l’organista o il clavicembalista non si indice un regolare concorso pubblico come per tutti gli altri strumentisti. Nessuno si è mai posto tali questioni??
Si conoscono bene le risposte dei parroci quando si avanzano delle richieste per le proprie prestazioni professionali. Ma d’altra parte loro non hanno un esempio a cui fare riferimento, un modello da imitare. Non possiamo neanche prendercela troppo con loro.


Essendo organista, conosco molti colleghi e sono al corrente delle loro vicissitudini. Ebbene ci troviamo tutti in una situazione generalizzata di malcontento che non riesce a sfociare da nessuna parte se non in sterili proteste che qualche rivista musicale ha la pietà di pubblicare. Non esistono sindacati che difendono i nostri diritti, perché non abbiamo diritti. E non esiste neanche la più piccola coalizione tra noi organisti, perché troppo impegnati a cercare di sopravvivere in questa giungla dove impera il mors tua vita mea.


E allora cosa dovremmo fare? Quali sono le proposte, le soluzioni possibili a questo problema?
Adesso, per provare a fare un po’ il punto della situazione, provo a stilare un piccolo elenco di quegli aspetti che prenderei in considerazione, e che sono dei piccoli progetti che si potrebbero sviluppare insieme, con la partecipazione di tutti:

1) ASSUNZIONE REGOLAMENTATA
2) EDUCAZIONE MUSICALE NELLA FORMAZIONE DEI SACERDOTI
3) COSTITUZIONE DI UNA CAPPELLA MUSICALE SPERIMENTALE

Molto succintamente, passo ad esporre i contenuti di ciascuno di questi tre punti.
Per ASSUNZIONE REGOLAMENTATA intendo che si stabiliscano delle modalità riguardo l’assunzione e il rapporto lavorativo tra chiesa e organista. In poche parole, per ogni chiesa indire un concorso pubblico con delle prove da superare inerenti le conoscenze sia dello strumento che della liturgia, proprio come si faceva nel passato, e sottoscrivere un impegno contrattuale che tuteli ambo le parti.


Con il punto 2) intendo invitare gli istituti seminariali a far rientrare tra le materie d’insegnamento una più massiccia dose di Educazione Musicale, affinché nei futuri ministri del culto si acuisca quella sensibilità necessaria a riconoscere e ad apprezzare la qualità della musica che dovrebbe entrare a far parte della liturgia.


Infine, la COSTITUZIONE DI UNA CAPPELLA MUSICALE SPERIMENTALE, consisterebbe nell’attuazione di questo nuovo modello (che non sarebbe altro che una copia di modelli già esistiti nella storia, e che grossomodo risponde ai criteri della sopravvissuta Cappella Sistina), in una chiesa di Roma, che possa servire da impulso per la costituzione di molte altre cappelle musicali, in un tentativo di far rinascere gli antichi splendori. Non necessariamente perché siamo arrivati ormai alle soglie di un nuovo millennio, ma perché è da troppo tempo ormai che sentiamo il bisogno (non solo noi musicisti) di creare un clima di rinnovamento culturale, il bisogno di muoverci in direzione di qualcosa di positivo.

Cosa erediteranno le nostre generazioni future? Canzonette che obbedivano a mode passeggere e che hanno rinnegato le nostre nobili origini musicali, i mirabolanti risultati a cui erano approdati i nostri geniali compositori del passato?
La Chiesa del 2000 sembra avere questa voglia di rinnovarsi, di riavvicinarsi alla gente per essere rivalutata; ebbene, questa è un’occasione, secondo me, da non perdere.
Io credo, anzi spero di essermi fatto un po’ portavoce di tutta quella vasta categoria professionale che rappresentiamo noi organisti, o almeno una buona parte di essa. E vorrei che si arrivasse finalmente a qualche risultato concreto, dopo tanti anni di ingiustizie; ma so anche che per farsi ascoltare da molto lontano bisogna essere in molti e compatti, come in un grande coro.
In fondo, non penso che si stia chiedendo qualcosa di insensato né di impossibile.

Luca Purchiaroni, luglio 1998