GIACOMO BAROFFIO


Liturgia in-canto





Che cos’è la liturgia cristiana? La liturgia è lo spazio dove D-i-o hic et nunc si fa presente al popolo credente. A modo suo. Egli offre la sua Parola che abbatte ogni barriera. Partecipa la sua stessa vita a quanti considera figli. Si rende nutrimento di quanti sono affamati di giustizia. Svela il suo splendore a coloro che a tastoni ricercano la verità. Nella celebrazione, tuttavia, prende consistenza una tensione tra il "già e non ancora" che fa spazio anche a un D-i-o trascendente, inaccessibile. È il tutt’Altro che non solo provoca sino all'estremo delle resistenze umane con il suo silenzio, ma si sottrae anche alle pretese della conoscenza razionale rivelandosi ineffabile, al di là di ogni pensiero ed immaginazione.


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La liturgia non è una bella idea con cui trastullarci e che possiamo manipolare a capriccio. La liturgia è una realtà spirituale concretissima, ha una vitalità intrinseca propria, esiste paradossalmente anche al di qua e al di là delle singole celebrazioni. È sempre presente perché incessantemente si celebra la liturgia celeste di cui quella terrena è solo un pallido anticipo. È sempre attuale perché è sacramento della presenza di D-i-o nel cuore del credente e nella storia dell’uomo. La liturgia attende tra l’altro di poter esprimere la fede nella forza dello Spirito con un canto che non sia musica bensì preghiera.


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La liturgia è un gioco che mette in gioco tutti. La liturgia è il tempo e lo spazio dove tutti si giocano tutto: D-i-o-, la comunità, la singola persona. Esperienza impegnativa che esige la donazione di sé. Senza riserve, senza resistenze, senza titubanze, senza musonerie. Leggerezza del cuore che si ritrova libro e sereno a giocare. Audacia dei figli. Nella fede, e pur sempre in parte incoscienti, giocano con D-i-o, lo chiamano papà.


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La celebrazione liturgica è in primo luogo una realtà spirituale, è quanto si vive nella forza dello Spirito prolungando nel tempo e nello spazio l’azione stessa di Cristo. Ciò non sottrae la liturgia alle categorie della cultura, anzi la colloca nella radice della situazione sociale quale fonte e culmine d’ogni attività del credente, che vive la storia con un linguaggio e tutta una serie d’atteggiamenti interpersonali propri dell’ambiente in cui vive. La liturgia si radica nella storia umana e trae dal tessuto culturale le forme e le espressioni necessarie per costruire e gestire la celebrazione: i differenti linguaggi della parola, della musica e delle immagini sono mutuati da un preciso orizzonte che s'intreccia con le vicende storiche e politiche di una comunità.


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La liturgia non è un laboratorio sperimentale dove ci si possa divertire a manipolare ogni cosa. È l’oratorio dove si entra in punta di piedi, dove siamo chiamati ad ascoltare e ad accogliere la Parola di D-i-o nella preghiera e nell’adorazione.


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Quando si entra nell’ambito della liturgia, bisogna sapere che sono vigenti categorie diverse rispetto al mondo sociale, laico o ecclesiastico che sia. Ci si pone esplicitamente alla presenza di un D-i-o che, al limite, potrebbe sembrare assente, ma che pure è lì: interpella e provoca il credente con la sua Parola ed il suo silenzio, entrambi profondamente intrecciati e sempre eloquenti ed insieme enigmatici. Forza travolgente che penetra nel cuore orante colmandolo di pace dopo averlo svuotato e purificato con il tormento della ricerca e dell’ascolto diuturno.


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La liturgia è un cammino mistico. Nonostante che i suoi testi e i suoi riti siano fissati con sempre maggior cura e meticolosità prima nei manoscritti e poi nei libri a stampa, il suo svolgersi nella storia della comunità e del singolo credente attraversa momenti inediti di luci e ombre, certezze e smarrimento, serenità e angoscia.


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La liturgia è il momento forte di un'esperienza che coinvolge e travolge il credente. Non può essere vivisezionata e scomposta in alcuni elementi che pur ci sono, ma che in definitiva restano secondari. Parole, gesti, canti, azioni rituali possono essere oggetto di investigazioni storiche e teologiche. Sono, infatti, elementi presenti in ogni celebrazione ed hanno tutti una storia affascinante: elementi necessari, ma sempre insufficienti per spiegare il dono di D-i-o. Egli irrora con il suo Spirito il cuore in adorazione che la grazia sull'incudine del quotidiano plasma sul modello del cuore di Cristo, rivelazione dell'amore infinito del Padre. Per tale motivo, ciò che nel profondo della persona avviene nel momento della liturgia rimane fuori di ogni calcolo e categoria razionale: è semplicemente indicibile, è una realtà in cui l'amore di D-i-o fa breccia nell'ottusità della persona umana e le conferisce una nuova dignità, quella del figlio. Ciò che i figli sono per i genitori e ciò che i genitori sono per i figli non si può dire a parole: solo lo sguardo di tenerezza e di riconoscenza nel silenzio può lasciar intuire qualche frammento di infinito e di eterno.


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C’è un unico luogo in cui si celebra la liturgia: il profondo del cuore, animato e reso fecondo dallo Spirito. La liturgia del cuore ha nell’azione ecclesiale la sua visibilità esterna ed è autentica nella misura in cui riesce a essere segno e anticipazione della liturgia del cielo, nella pienezza del regno di D-i-o.


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La liturgia si pone nella vita quale esperienza di D-i-o in un contesto ben preciso: la preghiera. Un atteggiamento nascosto di totale abbandono a D-i-o: fede, fiducia, confidenza sono alcuni aspetti di un cristallo dalle mille sfaccettature il cui splendore illumina ed insieme acceca, inchioda l'esistenza all'asperità del quotidiano e la solleva in un movimento di speranza. La preghiera è la risonanza che prende corpo nel cuore quando si avverte - forse contro ogni indizio e convinzione razionale - che D-i-o è presente. D-i-o padre e madre, potente e delicato, affermazione ed attesa, esigente ed indulgente, che mette sottosopra il cuore e lo getta in un tumulto da cui lo ritrae per affidarlo alla gioia della pace e dell'ordine. Il pregare comporta anche espressioni verbali, il dire le preghiere, significa però soprattutto stare all'erta, essere in ascolto per percepire il minimo fruscio che potrebbe rivelare l'avvicinarsi di Dio, meglio: il nostro avvicinarci a Lui dopo tanti tormenti, itinerari contorti, dubbi, incertezze, rifiuti, dimenticanze, pentimenti. La preghiera è il nostro essere autentico quando prendiamo coscienza di chi siamo - figli di D-i-o - e re-agiamo alla sua presenza nella nostra vita. Quando dal cuore, incontenibile, sale una melodia. Senza parole, con tutta la nostra vita.


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Nella comunità cristiana ci sono persone istruite che sanno penetrare nel significato del messaggio liturgico attraverso profonde analisi filologiche e storiche. Ci sono umili servi e ancelle che, teodidatti, sono illuminati dallo Spirito e senza capire nulla o quasi, comprendono tutto o quasi. Nella liturgia l'esperienza comune dello Spirito permette alla comunità di trovare un suo equilibrio profondo: sono abbattute le barriere del censo e dell'età, tutti si ritrovano figli di un unico Padre, fratelli e sorelle più di quanto possa creare il vincolo del sangue. Sul fondamento di un'unica fede e di un'unica figliolanza, la comunità si costituisce in famiglia. Intorno alla mensa della Parola e del Corpo/Sangue di Cristo nasce l'unione dei cuori che trasforma l'individualismo in componente d'aggregazione, il talento personale in dono comunitario.


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Se la partecipazione alla liturgia vuole inglobare il canto, è necessario affermare la priorità dell'essere sul fare. Occorre, cioè, ripensare i progetti pastorali in modo che i singoli e l'assemblea tutta siano aiutati a vivere la responsabilità della vocazione battesimale quali creature di fronte al Creatore, quale fratello/sorella nella comunità dei figli di D-i-o, nella capacità di operare a tempo debito i necessari distacchi e compiere la conversione esigita dall'incontro con D-i-o. Chi vive queste esperienze, al di là delle proprie attitudini e capacità artistiche, sentirà sgorgare dal profondo del cuore il canto della vita. Il dare voce a tale canto attraverso la musica dipende da tanti fattori; l'importante è che alle labbra affiori il canto del cuore, non una qualche melodia estranea.


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D-i-o esige che si sgombri totalmente il terreno, che non ci sia posto per nessun altro: solo così lo si può accogliere quale Signore assoluto ed indiscusso della vita. Tutto ciò che c'è stato prima della liturgia scompare. Il che comporta lo spezzare vincoli familiari, il sacrificare aspirazioni legittime: è, in piccolo, ma sempre cruda, l'esperienza di Abramo chiamato a sacrificare il figlio Isacco. Nel momento in cui ci si inoltra verso il roveto ardente, il fuoco distrugge solo le scorie. Nella celebrazione ci si ritrova con il cuore purificato, capace di ospitare, nel senso più nobile del termine, tutte le persone ed i pensieri che si erano abbandonati a fatica. Lo spazio interiore che D-i-o sembrava aver confiscato unicamente per sé, si dilata senza confini: diviene accoglienza misericordiosa del prossimo, capacità di rinnovata riflessione e impegno civile.


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Nel modo con cui si è entrati nella liturgia, così si esce. Con il rischio che nulla sia successo e possa accadere. Se il presente liturgico non è esistito, il futuro della vita non sarà altro che la continuazione di un passato senza volto. La liturgia diviene sterile, la celebrazione è solo fonte di tedio, il quotidiano si dissolve nel grigiore.


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La liturgia nel corso dei secoli ha cercato diversi linguaggi per aiutare il popolo cristiano a vivere un’esperienza di fede. Sono in primo luogo le molteplici espressioni poetiche che trovano varie concretizzazioni. Sono le forme architettoniche che s’innalzano al cielo elevando il cuore a D-i-o. È lo sfavillio dei colori della pietra e degli intonaci, ma soprattutto delle vetrate: esse filtrano e ravvivano fasci di luce che illuminano lo spazio dell’edificio e gli spazi interiori dell’assemblea orante. È il flusso delle parole che rivelano all’uomo la Parola del Padre e fanno a giungere al cuore del Padre le lodi e i gemiti dei figli. Parole divine e umane che il canto sorregge e diffonde con una forza sempre nuova verso l’incanto dell’incontro con una Presenza che nasce dal silenzio e al silenzio riconduce rinnovati dalla grazia.


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La dimensione religiosa della vita trova grandi ostacoli in tante manifestazioni fraudolente che si sostituiscono alla realtà: un certo tipo di religiosità - falsa - si sostituisce alla fede. Un facile, benché scandaloso servilismo, sembra esonerare dal prendere su di sé le proprie responsabilità. Un formalismo rituale, preciso sino nell'ultimo particolare, è contrabbandato come se fosse l'anima del celebrare i santi misteri. In questo orizzonte l'incidente più grave e nefasto colpisce gli uomini che spesso abdicano alla propria dignità e, così facendo, sgretolano dalle fondamenta l'impianto sociale. Si rinuncia - talora anche per violenza esterna - ad essere persona perché in certi momenti ciò costa sacrifici, e notevoli; ma ci si lascia trasformare in mero numero nell'ingranaggio consumistico o in anonima pratica all'interno di un mostruoso apparato burocratico dove tutto sembra svolgersi senza intoppi. L'anonimato, infatti, guida la regia di questa farsa, una rappresentazione balorda che finisce per trasformare le persone in pagliacci di carta, senza testa, senza cuore: nella famiglia, nella vita sociale, nella celebrazione liturgica.


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La musica è l'apologia della fede più genuina (J. Ratzinger): essa rivela ciò che si crede, Colui in cui si crede, come si crede, al di là di tanti discorsi che soltanto confondono e illudono. Dimmi che cosa canti, come canti e ti dirò in chi credi. Non si pretende che tutta la musica sia eccelsa e che tutti siano musicisti provetti. La passione che persino uno stonato mette nel cantare la sua fede con melodie tradizionali del popolo cristiano - semplici, ma profonde - dice la fede molto più di un'enciclopedia teologica. La sobria melodia del Pater noster gregoriano permette di dire Babbo all'Ineffabile, nel tremore e nella gioia di una fede che non si lascia illudere dallo sfavillio di specchietti per allodole come sono le “catechesi” misticheggianti ed esotiche oggi in voga e praticate per accalappiare la gente, con la convulsa e fallimentare mira di riempire le chiese, invece di preoccuparsi, come diceva un saggio, di colmare i cuori di quanti sono alla ricerca di LUI.


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Domine labia mea aperies. Nella triplice invocazione - preziosa eredità dell'ebraismo che nella notte inizia la preghiera del giorno - il cristiano avverte tutta la sua impotenza: la preghiera è sempre dono gratuito del Padre. Segno del suo affetto è poterlo ascoltare, potergli parlare. Chi salmodia nel coro, chi siede in disparte, chi si prostra in adorazione: il canto della salmodia non induce al sonno, bensì ridesta il desiderio del Tabor: vedere Gesù, stare con Lui. Con Maria restare seduti ai suoi piedi, levare lo sguardo, innalzare un canto ...


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Chi non è presente ai vespri, può supplire e prolungare il canto scandendo le parole del Magnificat, spesso senza riuscire ad andare oltre la prima parola, perché con essa dice già tutto ciò che vive. La Madonna è madre e sorella, a lei ci si rivolge superando le titubanze che spesso si avvertono di fronte al Cristo: può egli aver sempre misericordia di noi tapini? Non si stancherà mai? La Madonna è più abbordabile, è una di noi. E così, alla fine della compieta, l'ultima espressione della giornata è rivolta a lei, virgo mater ecclesiæ, con il canto della Salve regina, Alma Redemptoris mater, Ave regina cælorum, Regina cæli lætare ... La letizia della persona che si lascia semplificare dallo Spirito attraverso la pialla delle contrarietà quotidiane, non subìte con rassegnazione, bensì affrontate con audacia e coraggio, non nella ribellione, ma nella pace e nel silenzio.


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La preghiera liturgica insegna a mettersi su una certa lunghezza d'onda che è autonoma rispetto al caos mondano, che si pone al di fuori di esso per poterlo avvicinare e riscattare dal male, dalle brutture, dal peccato. Alla scuola della preghiera quotidiana e continua, il battezzato accoglie il dono della sapienza ed il gusto delle cose di D-i-o. Riesce a coltivare i pensieri di D-i-o e a vivere il mistero dell'incarnazione scoprendo in pienezza il suo essere pienamente uomo e il suo essere totalmente divino. Herrada di Landsberg/Hohenburg percorre così i cammini nel Giardino delle delizie, non senza comunicare a tutti noi la forza fascinosa del canto che sgorga dal suo cuore nel ricapitolare la storia della salvezza Primus parens hominum ...


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Nella storia della comunità cristiana grande rilevanza ha avuto la riflessione su alcuni nodi cruciali dell’esistenza del singolo credente e della Chiesa: D-i-o, la persona umana, il cosmo, la vita e la morte... Alcuni tentativi sistematici che riguardano esplicitamente D-i-o e la Chiesa sono stati elaborati in grandiose costruzioni intellettuali che costituiscono il patrimonio della teologia cristiana. Il solo pensiero razionale non esaurisce, tuttavia, la capacità interpretativa e neppure la possibilità recettiva; altri linguaggi partono da una sfera più profonda dell’essere e giungono a vertici che la ragione, con i soli circuiti logici, non riesce a raggiungere. Tra questi linguaggi la Chiesa ha privilegiato nella sua esperienza mistica e profetica il silenzio e le espressioni artistiche, in particolare, la musica.


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L’indifferenza verso la musica sacra è tanto più biasimevole in quanto tale atteggiamento nasconde di fatto un totale disinteresse nei confronti della liturgia stessa.


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La musica nella liturgia mantiene sempre intatta la forza evocativa del proprio linguaggio sonoro atto a sollecitare fondamentalmente un’esperienza estetica: la musica è bella e fa piacere ascoltarla. Ma ciò non è tutto, e non è neppure la cosa più importante. Nella liturgia la musica fa spazio a uno statuto del tutto particolare che le permette di trasfigurarsi, di essere tutt’altra realtà: diviene preghiera. Come ogni altra espressione dello spirito – vuoi testi, vuoi immagini – anche la musica sottostà a una condizione necessaria per aver diritto di cittadinanza all’interno della liturgia: tale condizione è l’assumere l’identità orante, essere preghiera. Il fatto non deve sorprendere più di tanto e non è una mortificazione né per la musica in se stessa, né per chi la pratica. È proprio della musica un mimetismo che riesce a trasformarla, senza rinnegarla, ma facendole di volta in volta assumere significati particolari. Due casi estremi: la musica quale dichiarazione di guerra nelle marce militari oppure quale dichiarazione d’amore in alcuni stornelli e Lieder. Il significato della comunicazione musicale è talmente pregnante e forte che nessuno più pensa alla musica, ma si trova coinvolto emotivamente in uno slancio offensivo oppure in un abbandono di passione amorosa. Nella liturgia la musica è mediazione privilegiata nell’incontro tra D-i-o e l’uomo: è “sacramento”, cioè segno sensibile e in qualche modo anche efficace della voce di D-i-o che giunge al cuore umano; parimenti essa è balbettio attonito o grido esplosivo - d’incontenibile gioia, ma anche di sofferenza inaudita - con cui la fede si rivolge a D-i-o. Tanto che se nella liturgia la musica non diviene reale preghiera, rischia di essere un corpo estraneo, fuori luogo, degno soltanto di essere espulso.


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Il linguaggio poetico della parola e del canto si muove nella sfera dell’intuizione e dell’emotività profonda, non si lascia imbrigliare da schemi, si espande in ambiti inediti, affronta il rischio dell’incomprensione. Agli occhi del teologo – che spesso affronta il mistero con scandalosa disinvoltura – tale linguaggio ha, inoltre, un forte limite: è decisamente frammentario. Può affascinare, ma subito rischia di deludere perché non prosegue su un binario chiaro e distinto, abbandona quasi a se stesso colui che ha intrapreso il cammino della ricerca e si è lasciato suggestionare dalle scintille della poesia.


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L’autenticità dell’esperienza liturgica non è confermata dall’accoglienza entusiastica del momento, dalla folla che fa ressa intorno all’idolo del momento, anziano pontefice o giovane curato che sia. La liturgia è autenticata dalla carità che si fa operosa nel nascondimento ed è alimentata dal silenzio dell’adorazione. Silenzio da cui è nato il canto gregoriano mille e più anni or sono, silenzio che anche oggi è l’unico spazio vitale in cui potrà prendere corpo il nuovo canto per la liturgia di domani.


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Tra gli estremi del silenzio e della parola/pensiero articolato c’è una terza via privilegiata nell’esperienza spirituale cristiana: il balbettio mistico della preghiera che si fa poesia in musica o, se si vuole, musica in poesia: sprazzi folgoranti che lasciano intravedere i punti fermi di un cammino che sfocia nella contemplazione. Nulla di sistematico, nessuna pretesa di esaurire l’ “argomento”. La poesia orante si libra sulle ali del canto che ha la forza di incantare perché svela i colori e le profondità recondite nascoste in una serie interminabile di espressioni.


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Il silenzio è il linguaggio per eccellenza che permette di comunicare le esperienze tanto profonde, uniche ed irripetibili, da essere letteralmente indicibili. È il silenzio delle relazioni interpersonali più intense dove le parole non riescono neppure ad affiorare tanto sono limitate ed estranee. Un solo esempio: l'assistenza di un moribondo, quando la vita non ammette più "scherzi", quando si raggiunge l'essenziale. Un silenzio amplificato dallo sguardo, da una carezza, dallo stringere forte una mano inerte nell'ultimo tentativo di trattenere la persona amata. Chi vive tali momenti, s'accorge che il silenzio è dedizione e rispetto, è presenza eloquente pronta ad intervenire con un gesto ed altrettanto pronta ad attendere nell'immobilità del corpo quando il cuore corre e visita, per l'ultima volta, la vita tutta dell'amato.


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L'esperienza del silenzio nelle relazioni interpersonali è la migliore scuola per imparare a reggere l'urto del silenzio di D-i-o: quando si pretenderebbe una sua parola, un suo gesto, e Lui sembra lontano, indifferente, assente, anche nella preghiera, anche nelle liturgie piene di canti. È pure scuola dove s'impara a vivere alla presenza di D-i-o lasciando che Lui legga il cuore senza frapporre il velo di tanti pensieri inutili, di tante parole vuote.


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Il silenzio è vero nella misura in cui annuncia il canto: la voce dell'amato del Cantico dei cantici, le acclamazioni dell'Apocalisse, il grido dei martiri, la melodia bisbigliata dalla mamma sul bimbo che si addormenta nell'abbandono fiducioso e sereno.


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Nel dialogo sponsale tra D-i-o e la Chiesa (cfr. SC 84) la Parola trova nel canto la sua espressione più adeguata ad una precisa condizione: è necessario che la musica scompaia dall'orizzonte nel momento stesso in cui risuona e scuote il torpore spirituale dell'uditore che si apre all'ascolto della Parola, non all’ammirazione del cantore o dei cori. Chi canta in chiesa - sia egli un cantore del coro, sia egli un membro dell'assemblea - è voce sacramentale di Cristo che ora sussurra, ora irrompe con forza nel cuore in faticosa ricerca della salvezza.


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Chi vive la fede cristiana s’accorge come la Parola di D-i-o necessiti di una mediazione che vada al di là della spiegazione filologica e dell’applicazione moraleggiante. Percepire la voce di D-i-o nella sua Parola è un’azione del cuore in ascolto di quanto le parole della Bibbia non riescono a esprimere. La musica è il linguaggio privilegiato del cuore: di D-i-o e dell’uomo. Il canto gregoriano ha la forza di in-cantare, distogliere il cuore dalle pre-occupazioni perché si dilati e si orienti a D-i-o nell’adorazione e nel silenzio attonito.


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È vero che la musica deve avere precisi requisiti di armonica strutturazione melodica e ritmica; è anche necessario che assemblea, cantore solista ed eventuali coristi mettano tutto l'impegno per eseguire la musica nel miglior modo possibile, fare del canto un momento d'incanto. Ma ciò è soltanto un aspetto, secondario, della realtà musicale all'interno della liturgia. La musica è sacra perché è ispirata dallo Spirito e risuona quale voce che confida all'uomo i segreti reconditi di D-i-o: nell'ascolto orante il silenzio intorno a chi cerca D-i-o si squarcia e attraverso le note musicali viene dato di entrare in comunione con Cristo nel susseguirsi ordinario della vita quotidiana sino ai limiti di esperienze mistiche straordinarie. La lunghezza d'onda della musica nella liturgia non è il piano psicologico né quello sociale, ma la vita nella comunione trinitaria che permette di contemplare il Padre con il Figlio nella potenza dello Spirito santo. È in forza di questa prospettiva che è legittimo parlare anche oggi di musica "sacra".


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La melodia liturgica prende corpo attraverso le note cantate, ma è ben più di mera musica vocale. Il canto gregoriano è l’icona sonora attraverso la quale D-i-o e la Chiesa parlano al cuore dei credenti nel contesto ben preciso e articolato della celebrazione liturgica. Il canto, allora, non può esaurirsi nella linea melodica e nel ritmo musicale, bensì emerge progressivamente dalla comprensione esistenziale della Parola di D-i-o che ha un suo ritmo, una sua dinamica. È la Parola che si espande in un ampio respiro esigendo momenti di appoggio - scorrevole o attardato, leggero o fortemente incisivo - che mettano in evidenza precisi vocaboli che costituiscono il nucleo centrale e innovativo – un vero euangelion – della proclamazione liturgica.


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La liturgia è la scuola in cui s'impara a conoscere se stessi e a riconoscersi come persona. Il che avviene confrontandosi con D-i-o nella Chiesa e con la comunità sociale. Il senso dell'autocoscienza si rivela nella qualità del rapportarsi agli altri. Nella misura in cui ci si considera persona, si tratterranno anche gli altri come persone, si riconoscerà la loro dignità indipendentemente da tanti aspetti decisamente accessori, quali sono la religione professata o negata, il censo sociale, l'istruzione, il colore della pelle e le abitudini emergenti, buone o cattive che siano. Davanti alla "persona" di D-i-o non si può non riconoscere in se stessi e negli altri che delle persone create a sua immagine e somiglianza.


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La Chiesa in preghiera propone da secoli ormai a tutti i credenti più o meno le stesse preghiere, le medesime rappresentazioni mentali di D-i-o e del cristianesimo. Ciò non toglie che - alla scuola di Cassiano, di Origene, di Gregorio Magno e di tante persone spirituali - la proposta ecclesiale continui ad essere una provocazione che sfida l'individuo a prendere posizione, a scoprire se stesso, tutta la sua persona con gli slanci di generosità e i rifiuti meschini, la forza di affrontare i rischi e la pusillanimità della paura paralizzante, i momenti di angoscia disperata e gli sprazzi incandescenti della speranza senza nessun motivo tangibile.


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Il canto gregoriano è quasi sempre Parola di D-i-o che diviene preghiera della Chiesa, talora è parola della Chiesa che si rivolge a D-i-o. Il respiro dei cantori si innesta sul soffio divino dello Spirito che al Padre rivolge le parole del Figlio. Dopo aver accolta nella traditio liturgica la Parola di D-i-o, la Chiesa, attraverso la voce dei cantori, vive la redditio della stessa Parola carica di tutto lo spessore dell’esperienza umana. Di nuovo è la musica che infonde profondità alle parole e squarcia i limiti del lemma o significato tecnico lessicale esprimendo con i suoni le vibrazioni ineffabili che non riuscirebbero altrimenti a liberarsi dal cuore umano. Anche in questa prospettiva i gemiti inesprimibili dello Spirito si intrecciano con pensieri compiuti e rigorosamente logici, testi sillabici si alternano a lunghi vocalizzi. La Parola di D-i-o – i salmi in modo particolare – conducono la Chiesa orante nelle profondità della vita di fede e la guidano in un incessante itinerario che porta alla scoperta del tempio interiore: qui i canti troveranno un’eco e potranno essere riconosciuti nelle melodie gregoriane, Parola di D-i-o - preghiera dell’uomo.


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Il mondo gregoriano, dai compositori sino agli esecutori, è del tutto alieno da ogni forma di protagonismo. Nell’atto compositivo si ricorre spesso a materiale già presente nel repertorio (formule melodiche con varie funzioni, segmenti centonici, strutture modali e melodie tipo) e si rispetta con venerazione lo stile inconfondibile dei singoli brani. Non ci si meraviglierà nel costatare che l’inventiva e l’impronta personale che caratterizza le melodie gregoriane non si sia sbizzarrita nel trovare cose sempre nuove ed originali. Ci si muove in un clima di preghiera simile a quello che contraddistingue i pii pittori intenti a dipingere le sacre icone: il vero maestro è colui che sa coniugare, in modo eccellente, gli schemi tramandati dal passato con la novità della propria esperienza personale.


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La massima parte dei testi messi in musica nel repertorio gregoriano sono tratti dalla Bibbia e, in larga misura, dal salterio. È Parola di D-i-o attualizzata, assunta come preghiera da un popolo in cammino che si sente spesso stanco, appesantito dalle fatiche e dalle delusioni. I testi dei canti non propongono enunciati teologici elaborati concettualmente. Sono piuttosto dei balbettii che in modo frammentario lasciano affiorare dal profondo del cuore ciò che la persona vive nell’abisso della propria esistenza, in quella camera recondita dove è possibile incontrare D-i-o a Tu per tu. Il canto liturgico è l’eco di tale incontro che lascia senza parole. Per tale motivo l’orante riprende le espressioni del salmista, le rivive nel giubilo e nella sofferenza, nell’angoscia e nella luce di una speranza rinnovata.


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Può accadere che nel desiderio di prevenire l’urto con la Parola tumultuosa e insieme silenziosa di D-i-o, ci si armi di pensieri e di parole alle quali si applica l’etichetta confortante di “preghiera”. Si insiste con tale vociferare interno per riempire gli spazi interiori e non lasciar posto alla Parola, in verità per difendersi da essa. È una delle tante strategie umane con cui si distrugge la vita sul nascere pur di non correre rischi. Il soffio divino potrebbe inebriarci con la sobrietà della Parola, il seme divino potrebbe affondare le radici nel nostro cuore e produrre frutti proibiti e inaccessibili ai mortali quali la verità, la giustizia, l’amore. Sì, è meglio non correre rischi e lasciarsi cullare dal disimpegno del grigiore, trascinandosi da un’abitudine all’altra, senza imprevisti, senza lotta, senza luce. Abbandonarsi a D-i-o è la scelta più facile e insieme la più difficile: facile per chi ha il cuore innocente e puro e si lascia condurre dallo Spirito; opzione difficile fino ad essere impossibile per chi vuole ad ogni costo imporre se stesso agli altri e al Tutt’Altro, assolutizzando le proprie idee, facendosi centro dell’universo verso cui tutti devono inchinarsi. È anche il caso di tanti sforzi di imporre a D-i-o le nostre preghiere, tanto nostre da non poter più elevarsi al di sopra di noi stessi. Nell’itinerario avventuroso della ricerca di D-i-o la Chiesa si fa guida del popolo cristiano e propone giorno dopo giorno, ora dopo ora la Parola e conduce con mano l’orante a rivolgersi a D-i-o. Prima di tutto con il silenzio. Dopo ogni ascolto ci vuole tempo per poter rendersi conto del cibo spirituale che si è appena accolto e che occorre mandar giù nel profondo del cuore. Quale nettare vivificante la Parola riscalda e illumina l’esistenza, brucia letteralmente. Lungo il suo tragitto interiore rimuove quanto nell’intelligenza e nella fantasia, nella sensibilità, nella volontà e nelle emozioni impedisce l’accesso della Parola. Finalmente D-i-o con la sua voce e il suo silenzio bussa alle porte del cuore e la sua presenza s’infiltra in ogni spazio. Le pareti dell’anima riflettono questa presenza che si ripercuote ad ondate ricorrenti in altrettanti silenzi e parole: eco della Parola divina. Questa rimane materialmente la stessa, ma cambia nella sostanza. Non è più solo voce di D-i-o, è anche preghiera dell’uomo.


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Le categorie e la sensibilità estetiche nei confronti del canto gregoriano vanno assunte e verificate partendo non dalla situazione personale del cantore/ascoltatore, bensì dalla realtà mistica di questo repertorio. Ciò significa che per comprendere ed apprezzare in modo adeguato il gregoriano è necessario, come nell’approccio ad ogni espressìone d’arte, abbandonarvisì senza nessuna pretesa aggressiva, mascherata abilmente dalla necessità, ad esempio, di capire bene, analizzare nei particolari, dominare la materia. Ma più importante dell’abbandono – che permette al canto di illuminare le tenebre del cuore e di ridestare le fibre emotive profonde della persona – è la radicazione del cantore/ascoltatore nell’azione liturgica, nell’evento di salvezza che si attualizza nella celebrazione. A queste condizioni il canto gregoriano rivelerà progressivamente i suoi contenuti che trascendono il mondo dei suoni musicali. Questi ultimi sono soltanto l’eco delle melodie ineffabili del cuore e l’anticipo di quell’esperienza unica dell’immedesimazione con il Verbo - Parola del Padre - che in pienezza sarà vissuta nella gloria.


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L’espulsione del gregoriano dalla liturgia ha favorito il diffondersi di schiamazzi e sdolcinature che, al di là dell’inconsistenza artistica, non sono in grado di orientare i cuori a D-i-o. Il canto gregoriano è certamente legato a una sensibilità del passato, ma è un’opera d’arte che trascende i confini del tempo e i condizionamenti delle culture. A patto che lo si ascolti nell’obbedienza della fede, con il cuore teso a percepire la Parola di D-i-o, senza pretendere chissà quale piacere estetico. Pronti a seguire Cristo nello spogliamento della Croce e nella sobria ebbrezza dello Spirito.


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Il concetto di partecipazione nel solo '900 ha avuto valenze notevolmente differenziate a seconda del contesto teologico (ecclesiologico) e culturale (antropologico) in cui è stato pensato ed elaborato. Spesso si sono contrapposte in modo esasperato le dimensioni dell' "attivo" e del "passivo". Ci si è dimenticati che l'essenza della partecipazione non sta in nessuno di questi due atteggiamenti, bensì nell'accoglienza della vita di D-i-o e nella partecipazione alla missione profetica, regale e sacerdotale di Cristo.


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Sono emerse e continuano ad emergere posizioni aberranti, sostenute in nome di una facile demagogia che periodicamente rivendica una democratizzazione liturgica e un attivismo inconsistente ("tutti devono cantare tutto"). Non aiuta a sbrogliare la matassa neppure la posizione esasperata di chi, arroccato su affermazioni opposte ("nella liturgia sia ammesso soltanto il gregoriano e le composizioni polifoniche di stile classico"), pretende di difendere strenuamente la cosiddetta tradizione e non si accorge che invece le fa torto. "Conservare et promovere" è il motto di un giusto atteggiamento nei confronti della realtà liturgica e musicale (cfr. SC 114).


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Attraverso momenti luminosi e altri opachi, la musica si è affermata nella liturgia secondo due principi attinti ad ambiti che sempre occorre tenere ben distinti. Sul versante musicale ciò che importa non sono le forme e gli stili, bensì la bontà del linguaggio [= aderenza rigorosa a una precisa grammatica e sintassi musicale] e la bellezza espressiva [= inalienabile dimensione estetica]. Sul versante culturale la musica è “santa”, cioè scelta per D-i-o, senza la contaminazione di quanto potrebbe contrastare, opporsi o negare l’esperienza spirituale che si è chiamati a vivere nelle celebrazioni [= negazione di quanto oggi in questo preciso contesto sociale allontana dalla Parola anche sul piano delle emozioni e delle associazioni libere]. Ogni epoca ha il diritto e il dovere di impegnarsi a fondo per offrire al popolo di D-i-o una musica che abbia rispetto della tradizione e che nella faticosa e gioiosa sofferenza del parto generi nuove melodie, nuovi timbri, nuove armonie.


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Il canto e la musica sacra si relazionano alla liturgia in un preciso contesto cultuale e con parametri che, a cerchi concentrici, abbracciano: il fatto sonoro, le sue componenti antropologiche, la liturgia con le proprie strutture celebrative, la realtà ecclesiale nella dinamica di un incessante confronto e colloquio con D-i-o.


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Il canto e anche il solo ascolto spirituale della musica sacra introduce nel silenzio della preghiera, gli archi melodici innalzano la volta del tempio interiore. La voce del cantore si dissolve; esile, la brezza di Elia, si inizia ad avvertire la Parola.


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Il canto nella celebrazione abbandona lo statuto musicale ed entra in una “economia” del tutto diversa, quella della sfera mistica. Detto senza mezzi termini, il canto nella liturgia non è musica, bensì preghiera.


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Il canto nella liturgia non è un optional che solletica la curiosità; è una dimensione che segna nel profondo il cammino di fede. È l’itinerario quotidiano che si percorre lasciandosi afferrare da D-i-o in tutta la persona. Intelligenza ed emotività, razionalità e fantasia, spirito e corpo sono percorsi dal fremito della fede che si ripercuote nelle vibrazioni del canto che sale dal pozzo interiore per comunicarsi con una melodia che rivela la corsa della Parola nella vita della singola persona e della comunità intera.


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Il canto gregoriano introduce alla comprensione di ogni momento liturgico che proprio attraverso le melodie acquista un colore particolare ed esclusivo. Oggi si è abituati a cantare nella liturgia ciò che piace o ciò che si sa più o meno bene. Di rado i cantori partono dall’azione liturgica e dalla sua ben precisa articolazione per scegliere i canti. Purtroppo questa situazione è favorita dalla subcultura musicale del popolo italiano che lo Stato lascia nella più nera miseria culturale. Il risultato è che per molte persone cantare è una cosa ardua, imparare un canto diviene una tortura. Al di là della situazione contingente italiana, nel mondo liturgico la rivoluzione degli ultimi decenni ha tolto il terreno musicale sotto i singoli riti e i diversi momenti celebrativi. I pochi canti ben fatti e adeguati alla liturgia servono concretamente in tante occasioni, travisando anche il loro senso e la finalità originaria. A ciò si aggiunga la moda del “tutto che va bene sempre” e si potrà ascoltare un canto orecchiabile alla Messa e ai funerali e ai vespri. Fatti del genere, relativamente frequenti, rivelano un’estrema povertà musicale e, cosa ancora più grave, una marcata insensibilità liturgica e spirituale. Il canto gregoriano proprio in questo contesto ha una funzione unica: forma non tanto l’orecchio quanto piuttosto il cuore a percepire la molteplice ricchezza dei singoli momenti celebrativi. Non soltanto Pasqua si differenzia da un giorno di avvento, ma, anche all’interno della Messa, il momento dell’introito esige un atteggiamento interiore diverso da quanto è richiesto alla liturgia della Parola e al momento della comunione.


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Nella scelta dei canti un criterio fondamentale, talora trascurato, non è soltanto la verifica della qualità musicale in una prospettiva tecnica compositiva, ma la congruenza del testo con la funzione del canto in questo giorno liturgico, in una determinata azione, in un preciso momento. Il diffuso analfabetismo musicale delle assemblee liturgiche italiane - colpa, questa, da attribuirsi prevalentemente all'assurdo e infausto sistema scolastico - costituisce un grave ostacolo alla scelta di un repertorio liturgico. È estremamente difficile imparare nuovi brani e, di fatto, ci si trova costretti a cantare alcuni pezzi in momenti del tutto diversi con funzioni contrastanti. È ben nota la sciagura liturgica evidenziata, ad esempio, da Simbolo 77, contro ogni intenzione dell'autore, Pierangelo Sequeri: per anni si è ascoltato questo canto in ogni circostanza da Natale a Pentecoste, dall'inizio della Messa alla conclusione dei vespri, da un matrimonio ad un funerale.


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La realtà musicale del canto liturgico può anche vivere della Parola di D-i-o senza che alcuna parola umana le faccia da supporto materiale. La musica diventa allora puro suono in piena espansione che permette alla Parola di risuonare senza essere limitata dalla comprensione razionale dei vocaboli. È il caso dei melismi, le lunghe elaborazioni vocali che nascono da una particolare esperienza di fede, scaturiscono dal cuore in preghiera e conducono nelle profondità del pozzo interiore.


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I melismi nella liturgia rispondono all’esigenza di dar voce all’inesprimibile e ineffabile dell’esperienza spirituale, quando il cuore, senza pensieri articolati e senza nessuna parola, riesce rendere partecipi gli altri della sua gioia. Il melisma, tuttavia, va considerato anche nella prospettiva opposta, quale espressione di quanto D-i-o vuole comunicare all’uomo oltrepassando la mediazione delle parole. Esse da un lato chiariscono i contenuti di un messaggio, ma nello stesso tempo lo limitano fortemente e rischiano di coartarlo e falsarlo. Attraverso il melisma, D-i-o afferma la sua presenza e comunica al credente quanto le parole e la stessa Parola biblica non è in grado di esprimere. Il vocalizzo riconduce all’esperienza del suono della voce anteriore al discorso articolato. È voce pura, segno incontaminato della presenza di un D-i-o che inizia il dialogo nel silenzio dove si richiede l’apertura totale del cuore e l’attenzione viva della mente, nell’ascolto docile che si fa obbedienza/accoglienza di fede.


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Il melisma corre sull’onda dell’adorazione gratuita. È il momento musicale dove, più che mai, si manifesta un aspetto paradossale del canto liturgico: esso è autentico nella misura in cui non esiste più quale espressione musicale, ma diventa pura rivelazione della Parola, comunione con D-i-o.


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Canto di gioia, l’Exultet si rivela essenzialmente quale preghiera di meditazione, di ascolto estatico dei mirabilia Dei. Un ascolto che aiuta l’orante ad aprire il proprio cuore per vivere nel presente (Hæc nox) la salvezza sfolgorante di Cristo. In questa prospettiva non si dovrà ricercare nella melodia degli Exsultet chissà quale artificio tecnico, né si dovrà cedere alla tentazione razionalista di una incessante novità espressiva. La ripetizione quasi ossessiva delle formule melodiche permette alla musica stessa di sfocare progressivamente fino a lasciare emergere in tutta la sua forza il testo e quanto il testo narra di D-i-o e dell’uomo.


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La vocalità del canto liturgico è mistica perché, genuinamente umana, comunica ciò che le parole non sono in grado di esprimere.


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Nella liturgia non si canta per piacere alla gente. Si canta una Parola che da sempre è spada a doppio taglio, brace ardente che purifica le labbra, refrigerio e consolazione del cuore. Realizzare ciò con una voce umana ha qualcosa di divino.


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Il canto gregoriano ha da sempre accompagnato e animato dal profondo del cuore la vita dei cantori. Ma i cantori a loro volta, con la propria voce e, prima ancora, con il loro cuore illuminato dalla fede, hanno dato vita al canto.


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Il cantore riesce a dare una calda fluidità alla propria voce dopo resistenze e lotte interiori. Non per attenzione pedante alle sillabe e alle parole - tale attenzione finirebbe soltanto con lo strozzare ed annullare la Parola - ma nella sofferenza e per la coscienza della propria povertà la voce balbetta, si frantuma nel pianto e svanisce nel silenzio per poi riprendere vigore e slanciarsi nel grido gioioso dell’alleluia. Impeto della voce tonante e dolcezza di un suono che diviene guida nel cammino di fede.


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Tutti, prima di cantare, imparano ad ascoltare. L'atteggiamento del cantore non è l'imporre il proprio repertorio e gusto, ma saper accogliere l'esperienza dell'altro, lasciarsi arricchire. Ciò giustifica il fatto che, in alcuni momenti all'interno di una celebrazione ed in alcune occasioni particolari, tutta l'assemblea si metta in religioso ascolto di un complesso brano polifonico o di una semplice melodia gregoriana che soli possono offrirle, a livello d'esperienza estetica e spirituale, quanto essa stessa non potrebbe realizzare. L'iconoclasmo - con cui s'impedisce talora ogni presenza corale polifonica o gregoriana in nome della partecipazione attiva del popolo - è una tragica e ridicola menzogna. Certe fibre profonde dell'essere possono iniziare a vibrare solo se sollecitate da alcuni brani musicali la cui esecuzione trascende le possibilità dell'assemblea Il patrimonio tradizionale è ricco di tali musiche che per secoli hanno veicolato un'esperienza di fede e che anche oggi potrebbero incidere nella vita di una comunità. L'impedire in modo assoluto che ciò si realizzi, è un'azione che alla fine sottrae alla Chiesa in preghiera un bene su cui essa vanta legittimi diritti. Nella comunità di fede si pratica il canto per dare sostanza ai momenti di preghiera comunitaria più volte il giorno, nella Messa e nelle ore che scandiscono il dì e la notte. Si trasmettono da maestro a discepolo le antiche melodie, si compongono i pezzi per adeguare la liturgia alle esigenze locali. Si è in permanente ricerca dell’equilibrio tra nova et vetera in un impegno che affianca il cantore al pittore delle sacre icone. Non si cerca la propria affermazione, ma si mette la propria arte a servizio della santificazione dei fratelli e della glorificazione del Padre celeste.


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Il silenzio orante non rende muti e sordi, bensì capaci di percepire al di sopra del chiasso confusionario le voci importanti della vita. La solitudine non rinchiude in una prigione egoistica l’orante, ma dilata davanti a lui i confini dell’infinito: di questo spazio illimitato d’amore il credente si fa cantore.


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Il canto gregoriano si afferma nella vita quotidiana delle comunità oranti in quanto preghiera appassionata. Il canto prodotto dall’apparato fonico (lingua) nasce in realtà dal profondo del cuore, come afferma un antico tropo dei monaci nonantolani: Lingua cor simul clamitet ad te pie Christe. Ciò spiega come mai nella preghiera la musica debba dissolversi per lasciare trasparire la realtà trascendente. L’evento musicale all’interno dell’azione liturgica è tutto a servizio dell’epifania del Nome. Il fine della musica non è l’intrattenimento sociale e la gratificazione emotiva, bensì un’esperienza di fede vissuta. Al cantore gregoriano si richiede in primo luogo la capacità di pregare in adorazione, nella dimenticanza del fatto musicale. Il detto evangelico “essere nel mondo senza essere del mondo” può essere parafrasato con “cantare la musica senza fare musica”.


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Il cantore è tale perché diviene profeta e proprio perché profeta è espropriato della sua voce. Nella liturgia non esprime in primo luogo la propria cultura ed il proprio gusto: è portavoce e voce di D-i-o.


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L’impegno del cantore è sempre rivolto in modo precipuo all’intelligenza spirituale della Parola di D-i-o proclamata sempre attraverso parole umane. Uno dei problemi principali nella liturgia è quello di liberare la Parola ispirata e permetterle di dire tutta se stessa, di essere percepita quale Parola di D-i-o. La musica entra in questa dinamica e lievita i discorsi umani; emergono significati reconditi e inediti del messaggio di D-i-o. Nell’ascolto orante, in una profonda integrazione che la fede realizza tra razionalità intellettuale, emotività profonda e intuizione, poco per volta il canto dischiude l’incanto, la Parola pronuncia l’Indicibile, nel tempo risuona l’Eterno, l’Invisibile si rende visibile e tangibile. Il canto diviene per eccellenza l’icona sonora che rende D-i-o presente nella storia quotidiana.


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Alla scuola della Parola e immerso dell’adorazione quotidiana, il cantore addestra il proprio cuore a percepire la realtà su una lunghezza d’onda che non è l’immediato né il successo né il vantaggio personale. Ci si ritrova sviluppato un sesto senso per le cose che più di altre si avvicinano all’eternità e all’infinito, a Lui. Se ne avverte il fascino, ci si lascia animare da esse con una dilatazione progressiva dell’intelligenza e del cuore.


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Tra le attenzioni coltivate da un cantore liturgico ce ne sono alcune che sembrano incontestabili, anzi, doverose: la disciplina che regola l’ordine del gruppo corale, l’impegno del singolo a imparare la propria parte, lo sforzo di inserirsi nella compagine vocale grazie a una positiva e umile collaborazione che sa equilibrare la potenza della voce, regolare la velocità e modulare il timbro al fine di arricchire con il proprio contributo l’esecuzione del coro. Tutti questi aspetti sono validi, ma secondari. L’attenzione primaria è la docilità allo Spirito. Chi canta nella liturgia – chiunque egli sia, un semplice fedele nella navata o un abile corista sulla cantoria – per il semplice fatto che canta si fa portavoce di un messaggio spirituale. Di questa buona novella egli diviene mediatore e amplificatore: mediatore con la propria voce, amplificatore nella vita. L’evangelion trasmesso è la Parola di D-i-o. Profeticamente essa viene annunciata da chi canta con la stessa forza con cui è stata gridata o sussurrata dai profeti d’Israel e della Nuova Alleanza: Giovanni Battista, Maria di Nazareth e la schiera dei santi tutti che in Israel e nella Chiesa hanno accolto e vissuto la Parola.


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Una delle cause principali della totale inefficacia del canto liturgico, incapace di destare o di ravvivare la fede, è che la musica nella liturgia talora è vissuta come se fosse una cosa semplicemente nostra, di noi cantori e musicisti di chiesa. Ci si accontenta di scegliere delle melodie “simpatiche”, di eseguirle bene o anche solo con effetto, di trovarsi in una confortevole compagnia di amici. Si canta perché si trova gratificazione a livello emotivo, intellettuale, sociale. Attraverso i testi destinati alla liturgia, e nonostante essi, si cantano la propria abilità vocale e i propri sentimenti che lì per lì affiorano alla superficie. L’inefficacia spirituale del canto nella liturgia è la conseguenza obbligata di un linguaggio che non è profetico perché non annuncia la Parola di D-i-o, ma si riduce a farfugliare povere chiacchiere umane. È necessario allora cantare meglio, cantare più testi biblici o d’autentica ispirazione religiosa? Sì! Occorre impegnarsi per cantare meglio ed è saggio far sparire tanti testi mielosi lasciando di nuovo spazio alle frasi consolatorie e taglienti delle Scritture. Ciò però è del tutto inutile se non avviene nella scia di un cammino di fede in cui i cantori siano impegnati su un altro versante: l’ascolto orante della Parola. Ascolto che non può limitarsi a una frettolosa lettura, ma che consiste nel ruminare la Parola e averla come guida fedele nell’itinerario che conduce il credente al cuore stesso di D-i-o.


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La priorità nell'azione pastorale non va data alla musica né al successo immediato che potrebbero avere gruppi improvvisati e pieni di buona volontà. È necessario che i futuri cantori e musicisti di chiesa approfondiscano la propria coscienza ecclesiale nella preghiera personale, nell'adorazione silenziosa, nella lectio divina e nella partecipazione appassionata alla liturgia comunitaria. Questa è la condizione che permette di acquisire nel tempo una sensibilità liturgica che non è data imparare dai libri. Nel silenzio dell'adorazione il cuore si apre all'accoglienza dell'Altro e degli altri, riesce ad entrare in empatia spirituale con i membri della comunità e con gli estranei di cui un musicista è comunque portavoce presso D-i-o, dopo che D-i-o lo ha chiamato e inviato a proclamare nel canto la sua Parola.


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Il cantore si mette in preghiera lasciando che la Parola letta e deglutita a piccole gocce, una goccia/versetto dopo l’altra, raggiunga il profondo del cuore, lo purifichi e lo rinnovi, lo illumini e lo dilati sino a trasformarlo in un’ampia cassa armonica che permette alla Parola stessa di risuonare e diffondersi. La Parola fa allora vibrare tutto l’essere. Si è percorsi da un brivido di fiamma d’amore che brucia le impurità e risplende illuminando i passi del cammino quotidiano. Immobili ci si lancia in una corsa sempre più incalzante verso D-i-o, nelle tenebre ci si lascia condurre dall’eco illuminante della Parola che riecheggia sul selciato del tempo. Ci si smarrisce e ci si ritrova senza parole, senza pensieri, senza nulla, ma proprio allora si è in grado di abbandonarsi alla guida della Parola. Lo stupore dell’adorazione avvolge ora il cantore. Finalmente egli sperimenta il silenzio che spalanca le porte alla lode. Canta, ma non è più la sua voce che egli sente e che si sente in chiesa. Il suo canto è la Parola profetica di Cristo che ancora oggi è via verità e vita. Parola che ancora oggi ha la forza di spezzare le catene, infrangere le abitudini, allargare gli spiragli per rendere presente nel cuore afflitto una carezza d’amore, un alito di fede, un invito alla speranza.


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Nella storia di una comunità semper reformanda, il cantore è chiamato ad assumere le proprie responsabilità quale punto di riferimento nella vita di fede della comunità. Il che significa che deve essere estremamente attento alle provocazioni che gli giungono da parte di D-i-o, della comunità e del mondo extra-ecclesiale. Occorre avere il coraggio di rischiare sotto il tiro incrociato di quanti, per motivi assai diversi, non sopportano di essere messi in discussione o soltanto infastiditi, paralizzati e abbarbicati come sono alle proprie fragili convinzioni religiose e ai propri parametri estetico-musicali. Sfondare il muro dell’indifferenza grazie al fascino spirituale del canto, può significare per l’assemblea liturgica l’inizio di altri recuperi non meno importanti nell’itinerario di fede.


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Il cantore non si lascia né incantare da fantasmi seducenti né spaventare da spettri terrificanti (moda, ignoranza, arroganza ...). Egli rimane fedele all’Opus Dei, a quanto D-i-o stesso opera nel cuore umano ridestandolo alla fede, nella contemplazione estatica dei santi misteri, nella condivisione della carità fraterna che è dono dello Spirito di D-i-o e segno della sua presenza.


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La liturgia è finita. Ognuno torna a casa. Il cantore non sa mai se è stato mediatore dello Spirito o se ne ha intralciato la corsa gloriosa. Con timore e tremore avverte la sua responsabilità, ma evita di spiare con orgogliosa curiosità che cosa sta succedendo. Come l’angelo dell’annunciazione ha compiuto la sua missione. Ora deve solo ritrarsi per rinnovare l’ascolto della Parola, denudare la propria fede, imboccare la via del silenzio. Nella solitudine di una stanza o di una strada o di un treno o di una prateria sconfinata sotto la volta del cielo che sorride ammiccando con le stelle della notte: sempre e ovunque Tibi silentium laus.


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Troppo spesso si sono visti crollare miti e si è scoperto, dietro alcune facciate rispettabili, un cumulo di rovine: violenze perpetrate dall'ignoranza e nell'arroganza, occasioni perdute per dilatare il regno di D-i-o soffocato da impegni apparentemente più gratificanti. Non si possono dimenticare, in campo musicale ed ecclesiale, episodi significativi quali il lentissimo ricupero dell'organo – giudicato giustamente dalle prime generazioni cristiane pompa diabuli – e la vergognosa piaga dei cantori evirati che per secoli hanno sottolineato la degenerazione della liturgia ad intrattenimento popolare. Quanto ieri sembrava inconcepibile, oggi è ovvio; quanto ieri era ovvio, oggi fa semplicemente inorridire. Ciò che viviamo oggi, come sarà giudicato domani?


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La storia della musica sacra nei 2000 anni di vita ecclesiale è un monito ad operare secondo il dettato evangelico - in primo luogo il Padre nostro e le Beatitudini - e l'insegnamento sapienzale della tradizione. Per il canto nella liturgia esiste da sempre un chiaro criterio di valutazione: la gloria di D-i-o – non il trionfo dei ministri scaduti a presuntuosi esecutori – e la santificazione dei fedeli - fratelli e discepoli di Cristo crocifisso e risorto (cfr. SC nr. 112).


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La musica non è un lusso elitario per pochi privilegiati o un addobbo facoltativo in balìa della buona volontà di qualche melomane: è parte integrante dell'esperienza della persona. Per questo motivo occorre concentrare tutte le forze perché la musica trovi rispetto e degna cittadinanza anche all'interno della Chiesa. Ci si impegna in questa missione quando se ne comprende l'importanza, quando si sperimenta quanto la musica riesce a dire al cuore umano nel "convertirlo" a D-i-o, quanto la musica aggreghi gli animi e possa contribuire a saldare insieme una comunità che è continuamente insidiata e dilaniata da correnti centrifughe e dispersive. Di qui la necessità di un rinnovato impegno pastorale nella ricerca di nuovi linguaggi musicali, nella ricostruzione dei cori parrocchiali, nel promuovere il restauro degli organi storici e la costruzione di nuovi strumenti: tutto nella custodia del passato con un occhio attento alle sollecitazione che aprono il cammino verso il futuro.


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Nell’orizzonte liturgico attuale, un problema serio è lo spazio che nelle celebrazioni è “concesso” oggi al gregoriano. Questo repertorio paga le spese dovute a una grave miopia culturale. Il gregoriano - si dice - sarebbe fuori moda, di altri tempi. Io non canto il gregoriano perché mi sento un nostalgico del passato, ma soltanto perché oggi mi aiuta a pregare. E il punto è proprio qui: la liturgia è fondamentalmente un momento di preghiera che occorre disporsi a ricevere come grazia da D-i-o, con timore e tremore, non alla ricerca di una qualche emozione estetica, ma semplicemente alla ricerca di D-i-o, nell’accostarci alla sua presenza, nell’ascoltare la sua voce, nel percepire il suo silenzio che fa spazio nel nostro cuore. Secoli di esperienza spirituale nella Chiesa hanno permesso a innumerevoli credenti di fare un’esperienza di fede attraverso il cantare e anche il solo ascoltare le melodie gregoriane. Perché privare il popolo cristiano della Parola di D-i-o che costituisce l’ossatura testuale della massima parte del repertorio gregoriano? Nella vita della Chiesa ci sono senz’altro valide esperienze diverse, ma è assurdo in nome del pluralismo culturale operare una riforma – quella liturgica – eliminando quanto potrebbe alimentare la fede di tanti fratelli. Il vero problema non è costituito dal gregoriano o da un altro e diverso repertorio musicale: il problema reale è sapere che cosa sia l’azione liturgica, che cosa fare per viverla in un’esperienza spirituale. Penso, ad esempio, alla formazione del clero a partire dal seminario, penso alla “regia” di tante celebrazioni che scimmiottano le mode dimenticando che “chi sposa la moda oggi,. domani è vedovo!” (card. Suenens). In mezzo a tanta confusione, mentre si ha l’impressione che troppe cose vadano alla deriva, occorre afferrare saldamente la Parola di D-i-o, riuscire a percepirne il significato mistico che le melodie gregoriane aiutano a dischiudere. Preghiamo cantando e cantiamo pregando. Il tempo stenderà un velo pietoso su quanto non è né vero né bello, e lascerà risplendere la gloria vera che il gregoriano riesce a diffondere nei cuori di chi, nel silenzio, si mette in ascolto: giorno dopo giorno, senza nulla pretendere, ma con il cuore aperto come la mano dell’accattone che tutto spera perché crede nel Benefattore che non disperde al vento i suoi tesori.

(Giacomo Baroffio, Pentecoste 2005)

- tratto da: Re-tractationes liturgia in-canto, Lodi, Edizioni per la Cappella Musicale della Cattedrale 2005, pp. 82.


Per ulteriori approfondimenti:
Futuro prossimo della musica sacra in Italia




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